I link della settimana (#45)
(i) Misinformation reloaded? Fears about the impact of generative AI on misinformation are overblown (Felix M. Simon et al., HKS Misinformation Review, 18 Ottobre 2023). Rubo dall’inizio di questo articolo:
Recent progress in generative AI has led to concerns that it will “trigger the next misinformation nightmare” (Gold & Fisher, 2023), that people “will not be able to know what is true anymore” (Metz, 2023), and that we are facing a “tech-enabled Armageddon” (Scott, 2023).
Alcuni pensano che l’intelligenza artificiale generativa (per esempio l’ormai nota ChatGPT) aumenterà la quantità, la qualità, e la personalizzazione, della disinformazione generando effetti catastrofici. Sarà proprio vero? Secondo gli autori: no, per diverse ragioni. Leggetelo se potete.
(ii) The social media discourse of engaged partisans is toxic even when politics are irrelevant (Michalis Mamakos and Eli J. Finkel, PNAS Nexus, 6 Ottobre 2023). Ancora una volta, contro l’idea diffusa che le echo chambers create dai social media generino polarizzazione e discorsi “tossici”, questa ricerca mostra come in realtà avvenga più o meno il contrario. Le persone che tendono ad avere atteggiamenti negativi, violenti, fanno lo stesso in contesti che non hanno molto a che vedere con la politica e che non sarebbero di per sé polarizzanti. Insomma, come spesso ripetuto qui, dare la colpa agli strumenti tecnologici (o ad un generico “contesto sociale”) non è molto lungimirante.
(iii) New form of addiction: An emerging hazardous addiction problem of milk tea among youths (Diyang Qu et al., Journal of Affective Disorders, 15 Novembre 2023). All’inizio pensavo fosse satira, ma mi confermano che non lo è. Questo articolo, pubblicato in una rivista scientifica seria, con un buon impact factor, mostrerebbe come il tè al latte (!) crei dipendenza per gli studenti cinesi analizzati dai ricercatori. La metodologia per rilevare la dipendenza andrebbe riportata tutta, qui solo alcuni esempi:
Drawing on the substance addiction criteria from DSM-5 […] The milk tea addiction was measured by different dimensions, following “The frequency of milk tea consumption”, “Persistent craving/Dependence symptom”, “Guilty feelings”, “Withdrawal symptoms”, “Tolerance symptom”, “Unable to stop”, “Intention to stop” […] Persistent craving/Dependence symptom was measured by the item, “In the past year, how often have you found yourself needing to drink milk tea to feel refreshed after waking up?” […] Guilty feeling was measured by the item, “In the past year, how often have you felt regretful or self-blaming after drinking milk tea?
E via dicendo. Sulla base di questa “scala di dipendenza”, i ricercatori mostrano che
a higher level of milk tea addiction was significantly associated with a higher risk of depression (b = 0.24, p < 0.001), anxiety (b = 0.21, p < 0.001), and suicidal ideation (b = 0.06, p < 0.001).
Quando qualcuno afferma che qualcosa (che non siano droghe vere) produce dipendenza (lascio a voi gli esempi) e magari cita qualcosa di vagamente scientifico pensate a questo articolo.
(iv) German Corpse Factory (Wikipedia). Si è parlato molto in questi giorni, non sorprendentemente, di come la disinformazione sia stata utilizzata da varie parti nel conflitto Israele-Hamas, e delle sue nefaste conseguenze. Andando a cercare casi simili nel passato, mi sono imbattuto in un esempio di cui non avevo mai sentito parlare. (È un esempio un po’ orrorifico, ma non credo siate molto impressionabili.) Durante la prima guerra mondiale, circolava una diceria che, a quanto pare, venne utilizzata dalla propaganda britannica per demonizzare i nemici tedeschi. Nel 1917, vari giornali, tra cui il Times, pubblicarono articoli sostenendo che a causa di una carenza di grassi in Germania, a seguito del blocco navale britannico, le forze tedesche utilizzavano i cadaveri dei loro stessi soldati. Paradossalmente, la diffusione (e conseguente debunking) della diceria ebbe implicazioni durante la seconda guerra mondiale, quando emersero i primi resoconti delle atrocità dell’Olocausto, venendo usata per avanzare dubbi sulla loro veridicità.
(v) Why Are Movies Sooooo Long? An Investigation (Natalie Harvey, Vanity Fair, 20 Luglio 2023). Per concludere con qualcosa di più leggero: non è solo Oppenheimer, ma i film sono in generale diventati più lunghi. Questo sembra in contrasto con l’idea che la nostra capacità di concentrazione sia diventata sempre più limitata - o forse proprio per quello, i film ci forniscono qualcosa di diverso dagli stimoli a cui ci stiamo abituando. O varie altre opzioni, discusse nell’articolo.